Tumore prostata, nuove cure su misura e chemio-free aumentano spettanza e qualità di vita
In breve tempo, attraverso le innovative terapie ormonali ‘chemio-free’, le prospettive dei pazienti con tumore alla prostata metastatico o ad alto rischio di metastasi sono radicalmente cambiate, anche nei casi più gravi. Oggi infatti i pazienti, anche i più complessi con diagnosi contemporanea di tumore alla prostata e metastasi, non solo hanno un’alternativa terapeutica alla chemioterapia, con tutti gli effetti collaterali che questa comporta, ma hanno guadagnato anni di vita di qualità: da 36 mesi di sopravvivenza, con la tradizionale terapia ormonale, a una spettanza di vita di poco meno di 5 anni. Lo sottolineano gli esperti riuniti a Barcellona – in occasione del 34° Congresso dell’European association of urology (Eau) – specificando come grazie alla terapia ormonale con abiraterone i pazienti metastatici già alla diagnosi abbiano guadagnato circa due anni di vita, mentre un altro farmaco come apalutamide ha dimostrato come nei malati senza metastasi ma con un alto rischio di svilupparle, possa ritardare di circa due anni la comparsa delle metastasi, permettendo ai pazienti di mantenere più a lungo una buona qualità di vita. «Oggi l’obiettivo della ricerca è avere più armi terapeutiche diverse, in modo da anticipare sempre più i trattamenti nelle fasi più precoci della malattia» spiega Walter Artibani, urologo e segretario della Società italiana di urologia (Siu). «Riuscirci è cruciale, perché può migliorare in maniera netta la prognosi del paziente».
«Ora è possibile iniziare a pensare di poter personalizzare le scelte terapeutiche in modo estremamente preciso, consentendo una prognosi migliore anche ai pazienti più complessi, per i quali tutto questo si traduce in un aumento della durata e della qualità di vita» osservaSergio Bracarda, direttore della S.C. di Oncologia medica dell’Azienda ospedaliera S. Maria di Terni. Una delle innovazioni che ha consentito questo “cambio di passo” è stato l’arrivo in clinica della terapia ormonale con abiraterone, che ha rivoluzionato le prospettive dei pazienti con carcinoma prostatico metastatico già alla diagnosi: in effetti, abiraterone associato alla terapia ormonale di deprivazione degli androgeni ha dimostrato di aumentare di ben 17 mesi la sopravvivenza rispetto all’uso dei soli farmaci per il blocco degli androgeni. «Un risultato di rilievo, perché significa allungare la speranza di vita da tre a poco meno di cinque anni» interviene Cosimo De Nunzio, urologo dell’Azienda ospedaliera Sant’Andrea di Roma. «Inoltre, il farmaco ha aumentato da 16 a 47 mesi il periodo senza un peggioramento della sintomatologia dolorosa legata alla malattia: questo significa che i pazienti hanno potuto trascorrere circa due anni e mezzo in più senza che il tumore comportasse un incremento del dolore e garantire, oltre a un aumento della vita media, anche un miglioramento consistente della qualità di vita. La terapia con abiraterone oltre a essere meglio accettata dai malati rispetto ad un trattamento chemioterapico, comporta un minor carico di effetti collaterali, anche nel lungo periodo: gli ultimi dati dello studio “Latitude”, che ha seguito 1.200 pazienti per quasi cinque anni, mostrano infatti che nel tempo non c’è un incremento sostanziale del rischio di eventi avversi».
Inoltre, l’impiego di abiraterone non preclude il ricorso ai chemioterapici nelle fasi successive della malattia: tutto questo consente perciò un nuovo paradigma di trattamento, per dare a ciascun paziente la terapia più opportuna per la condizione clinica in cui si trova. Ciò è possibile anche grazie ad apalutamide, terapia ormonale innovativa già approvata in Europa, in una fase ancora più precoce della malattia, ossia nei pazienti senza metastasi ma con un elevato rischio di svilupparle: il farmaco ha dimostrato di allungare di circa due anni il tempo libero da metastasi e con una buona qualità di vita, senza dolore, e può consentire una terapia ‘in sequenza’ più efficiente. Apalutamide, che si assume per via orale, agisce come inibitore del recettore degli androgeni: ciò, oltre a prevenire il legame degli androgeni al recettore, impedisce che il recettore stesso entri nel nucleo delle cellule tumorali e si leghi al Dna, bloccandone così la trascrizione, ‘bloccando’ il tumore e ritardando le metastasi. «La possibilità di avere terapie differenti a seconda della fase della malattia permette al curante di modulare il trattamento e al paziente di godere dei benefici di più opzioni terapeutiche» afferma Walter Artibani. «L’introduzione di apalutamide va sicuramente in questa direzione, lasciando aperta la via all’utilizzo di più opzioni terapeutiche nelle fasi successive della malattia. Così, grazie alla ricerca, la cronicizzazione della neoplasia prostatica in progressione sta diventando un obiettivo sempre più vicino e solido». Apalutamide è stato di recente approvato dall’Ema (Agenzia europea del farmaco) per i pazienti non metastatici resistenti alla terapia ormonale classica ad alto rischio sulla base dei risultati dello studio Spartan. Quest’ultimo ha dimostrato che in pazienti non metastatici, resistenti alla castrazione e con alto rischio di progressione (nei quali non si riscontrano metastasi con le analisi di imaging tradizionale ma che hanno il Psa in rapida crescita), il nuovo farmaco – associato alla terapia ormonale classica di deprivazione androgenica – riduce del 72% la mortalità e il rischio di progressione metastatica, aumentando di oltre 2 anni il periodo libero da metastasi in pazienti ad alto rischio: con apalutamide, infatti, il tempo alla comparsa della prima metastasi aumenta da 16 mesi, con le terapie ormonali attualmente disponibili, fino a oltre 40 mesi.