Distrofia di Duchenne: i tempi stanno cambiando
I progressi nelle terapie, la difficile ricerca di una cura, le difficoltà dei genitori prima e dopo avere ricevuto la diagnosi. Viaggio alla scoperta di una malattia rara
“I tempi stanno cambiando”, cantava Bob Dylan. Suonando quella canzone, incisa in un cd promozionale, Filippo Buccella cominciò a raccogliere i primi finanziamenti per mettere in piedi Parent Project onlus, l’associazione di genitori con figli affetti da distrofia muscolare di Duchenne, di cui oggi è presidente.
A distanza di dieci anni quelle parole sono più attuali che mai: «Il messaggio per tutti i genitori deve essere chiaro. I tempi sono veramente cambiati e non è vero che non si può fare nulla per i malati di Duchenne. Seguendo i percorsi giusti si vive più a lungo e si vive meglio», dice Buccella. «E adesso possiamo parlare di adulti malati e non solo di bambini», aggiunge ricordando che fino a poco a fa l’aspettativa di vita era di 15 anni mentre oggi un ragazzo di 25 può dedicarsi alle sue passioni, avere un lavoro e coltivare relazioni affettive. Proprio come Luca, suo figlio, appassionato di cinema che, fedele allo slogan “il futuro è adesso”, non vuole sprecare la vita in attesa di nuove cure risolutive. Che, oltretutto, sono ancora di là da venire, ma su cui stanno lavorando biologi e medici di tutto il mondo. Con la consapevolezza, però, che non potrà mai esistere un farmaco valido per tutti i pazienti perché la malattia non è uguale in tutti i casi.
Di distrofia di Duchenne si è parlato a Roma in un incontro organizzata a Roma dall’Osservatorio Malattie Rare, in collaborazione con Parent Project onlus. Un “viaggio alla scoperta della distrofia di Duchenne” che scegliamo di ripercorrere a ritroso, partendo dagli ultimi progressi della medicina, non ancora in grado di curare, ma capaci di rallentare il decorso della malattia e migliorare la qualità di vita dei pazienti.
Verso terapie personalizzate
La distrofia muscolare di Duchenne è provocata da mutazioni nel gene della distrofina, una proteina che si trova nella membrana delle fasce muscolari, che ne riducono la funzionalità con un conseguente danneggiamento dei muscoli. Ma il difetto può essere generato in vari modi: possono andare perdute parti intere del gene (accade nel 60% dei casi), oppure possono venire replicate alcune sue parti (10% dei casi), o ancora può succedere che alcune lettere del codice genetico vengano sostituite da altre (20% dei casi), o, infine, può accadere che la lettura del gene si interrompa nel punto sbagliato (“mutazioni nonsenso”, 13% dei casi).
«È come se volessimo cucinare seguendo le indicazioni di un libro di ricette a cui manca una pagina, oppure di un altro in cui sono cancellate poche righe o di un altro ancora in cui sono sbagliati gli ingredienti. Alla fine avremo tutti risultati sbagliati ma diversi gli uni dagli altri», ha spiegato Buccella. Ecco perché non è possibile immaginare una terapia valida per tutti, ma piuttosto si deve puntare a cure personalizzate.
Per intervenire sulle diverse modalità di insorgenza della malattia, la ricerca si sta muovendo su tre fronti: la terapia genica, quella cellulare e quella farmacologia.
Con il primo approccio si agisce direttamente sul danno genetico con molecole in grado di ripristinare o migliorare le funzioni della distrofina. Uno di questi farmaci, denominato ataluren, si è dimostrato efficace in uno studio clinico di fase 3 su 228 ragazzi affetti da distrofia muscolare di Duchenne. È indicato però per un gruppo ristretto di pazienti: interviene sulle cosiddette mutazioni nonsenso e viene usato nei bambini deambulanti da 5 anni in su. Agli occhi dei non esperti i vantaggi ottenuti con il farmaco potrebbero sembrare poca cosa: il gruppo di pazienti curato con ataluren è riuscito a compiere 47 metri in più rispetto al gruppo che non assumeva il farmaco. «In realtà i benefici sono soddisfacenti se si pensa che questi pazienti hanno mantenuto la funzione muscolare permettendo di allungare i tempi della deambulazione. Il che significa ritardare anche l’intera catena di eventi legati all’evoluzione della malattia», ha spiegato Eugenio Mercuri direttore dell’Unità Operativa Neuropsichiatria Infantile del Policlino A. Gemelli.
Tra le terapie geniche rientra anche la strategia dell’exon skipping, letteralmente salto dell’esone, cioè di una porzione del gene: si tratta di eliminare la porzione di gene, l’esone, dove è presente la mutazione in modo da ottenere una forma attenuata della malattia, simile alla distrofia di Becker meno grave di quella di Duchenne. Due molecole in grado di innescare questo processo, il drisapersen e l’eteplirsen, si trovano attualmente nella fase 3 di uno studio clinico, l’ultima prima dell’autorizzazione per il commercio.
Con la terapia cellulare, passando al secondo filone della ricerca, si cerca invece di fornire all’organismo cellule staminali capaci di generare cellule muscolari sane e ripristinare il funzionamento della distrofina. Gli studi, ancora in fase 1o 2, sembrano promettenti ma restano i problemi dovuti agli effetti collaterali del trapianto di cellule da donatori esterni.
La terza e ultima via della ricerca si basa sulla terapia farmacologica. Lo scopo è quello di contrastare il più possibile il processo infiammatorio e degenerativo della Duchenne. Tra le molecole che in futuro potrebbero venire impiegate c’è il Givinostat dell’italiana Italfarmaco, che ha superato una sperimentazione di fase 2, oppure l’idebenone prodotta dalla svizzera Santhera, o ancora il tadalafil dell’americana Eli Lilly. «Assistiamo a un’esplosione di nuove molecole per correggere difetti dovuti all’assenza della distrofina che fanno ben sperare», ha commentato Fernanda De Angelis dell’Area Scienza di Parent Project.
Anche in questo caso, però, non si tratta di cure risolutive ma di tentativi di rallentare il più possibile il decorso della malattia. Quello che già si sta facendo adesso si spera in futuro di farlo meglio.
Come si cura la distrofia muscolare di Duchenne oggi
Oggi la terapia universalmente adottata, basata sulla somministrazione di corticosteroidi, riesce ad attenuare i processi infiammatori rallentando la degenerazione muscolare, ma non permette una guarigione. Quel che è certo è che prima si comincia, meglio è. Se il trattamento farmacologico viene iniziato prima che il bambino raggiunga i 4-6 anni, si hanno benefici maggiori. Ecco perché è importante avere una diagnosi accurata nei primi anni di vita, cosa che non accade spesso. «È fondamentale che i pediatri colgano presto i segnali della malattia invece di considerare, come a volte accade, le difficoltà motorie come caratteristiche di un bambino pigro», ha spiegato Marika Pane, dirigente medico della Neuropsichiatria infantile (UOC) del Policlinico Gemelli. «Per avere i massimi benefici dalla terapia, il cortisone deve essere iniziato intorno a i 5 anni».
La terapia con i corticosteroidi associata a un percorso di interventi multidisciplinare, dalla fisioterapia, alla chirurgia ortopedica, alla prevenzione cardiologia e, soprattutto all’assistenza respiratoria, ha permesso di allontanare di qualche anno il ricorso alla carrozzina. «Senza farmaci la perdita della deambulazione avveniva intorno ai 12 anni, con i farmaci si può arrivare a 15 anni e si può ottenere una situazione di stabilità che si protrae più a lungo», dice Eugenio Mercuri.
Cosa sappiamo della Duchenne
Il nome si deve al neurologo francese Guillaume Duchenne de Boulogne che fu il primo a descriverla 150 anni fa. A quei tempi della malattia si sapeva ben poco, oggi si conoscono molti suoi aspetti. Abbiamo informazioni sulla sua diffusione. Sappiamo infatti che a soffrirne sono i maschi con un’incidenza di 1 su 3.300 individui. In Italia, a dire il vero, mancano dati ufficiali. Il Registro Pazienti messo a punto da Parent Project nel 2008 ha cercato di colmare questa lacuna raccogliendo informazioni sui pazienti e le loro famiglie, non solo per conoscere il numero dei malati, ma anche per raccogliere informazioni genetiche sulle specifiche mutazioni, necessarie per individuare i nuovi approcci clinici. Si stima che in Italia vi siano 1.500 malati e nel mondo ci siano 20.000 nuovi casi all’anno. Con questa statistica la distrofia muscolare di Duchenne si colloca tra le malattie rare, patologie che colpiscono non più dello 0,05 per cento della popolazione (5 casi su 10.000). Sappiamo poi che le cause sono genetiche: a provocarla sono delle mutazioni nel gene della distrofina collocato sul cromosoma X. Il che spiega perché i maschi non hanno scampo: avendo un cromosoma X e uno Y non hanno modo di compensare il danno, come invece possono fare le femmine dotate di due cromosomi X. A loro è concessa la possibilità di sfruttare il cromosoma sano per controbilanciare gli effetti negativi di quello alterato. Le donne possono essere portatrici sane ma non sviluppano la malattia, tranne in rari casi in cui si ha un indebolimento della forza muscolare intorno ai 50 anni. Conosciamo anche i meccanismi dell’ereditarietà. Prendiamo il caso più comune, con un padre sano e una madre portatrice: se il figlio è maschio c’è il 50% di possibilità che risulti ammalato, mentre se si tratta di una femmina c’è una probabilità del 50% che sia portatrice sana. Circa un terzo dei casi di distrofia muscolare di Duchenne però proviene da genitori entrambi sani e si deve a un errore genetico accidentale.
I sintomi e la diagnosi
I primi sintomi si hanno intorno ai tre anni: il bambino ha le prime difficoltà a correre, a saltare, a salire le scale, ad andare in bicicletta e si aiuta per alzarsi poggiando le mani in una maniera molto riconoscibile (segno di Gowers). Intorno ai sei anni i problemi motori diventano più evidenti, a 9-12 anni solitamente deve passare alla sedia a rotelle per poi andare incontro a scompensi respiratori e cardiaci. Ciò perché l’assenza o il malfunzionamento della distrofina provocano un graduale e irreversibile danneggiamento dei muscoli scheletrici, respiratori (diaframma e muscoli intercostali) e del cuore che con il tempo si indeboliscono. La distrofina si trova anche nel cervello per cui i bambini possono presentare anche un ritardo cognitivo e difficoltà nel linguaggio che andrebbero valutati come possibili campanelli di allarme. Ma il percorso che i genitori devono affrontare per ottenere la diagnosi corretta può essere lungo: di solito si inizia con i corsi di psicomotricità e logopedia per tentare di colmare le difficoltà di linguaggio e motorie e si finisce con un esame del sangue da cui emergono valori molto alti di CPK (creatinfosfochinasi) e delle transaminasi. Il verdetto definitivo lo consegna la biopsia muscolare, un esame invasivo che ultimamente si cerca sempre più di evitare, e la diagnosi molecolare, che consiste in un semplice prelievo del sangue. Con questo test si conoscono le specifiche mutazioni del gene della distrofina, un’informazione come abbiamo visto utile per individuare la terapia più appropriata.
Fonte: www.healthdesk.it