Aritmie letali, nuovo modello matematico prevede il rischio
Un gruppo di ricerca della Johns Hopkins University School of Medicine di Baltimora ha sviluppato un modello matematico in grado di predire in modo accurato quando i pazienti affetti da cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro (ARVD) possono realmente beneficiare dell’impianto di un defibrillatore cardiaco (ICD) per prevenire il rischio di aritmie letali. Lo studio offre un valido strumento di valutazione in quanto, se da un lato i medici concordano nel considerare i pazienti con aritmie potenzialmente letali idonei all’ICD, dall’altro non è chiaro se questo dispositivo sia sempre consigliabile nel caso in cui l’aritmia non si è ancora manifestata. «Gli ICD prevengono dalla morte cardiaca improvvisa e salvano vite.
Ma questi dispositivi comportano dei rischi e hanno effetti collaterali» dice l’autrice senior Cynthia James dalle pagine dello European Heart Journal indicando gli shock elettrici inappropriati o le infezioni come possibili conseguenze degli ICD. Inoltre, questi spesso devono essere sostituiti per malfunzionamento o semplicemente per consumo della batteria, il che necessita un nuovo intervento chirurgico per il paziente, la sua ospedalizzazione e un ulteriore spesa sanitaria. «Per i pazienti con ARVD, impiantare un ICD è una grande decisione con serie conseguenze, soprattutto se si considera che la malattia si sviluppa in giovane età» aggiunge l’autrice. Il modello, sviluppato utilizzando fattori di rischio descritti da ricerche precedenti, si è dimostrato capace di individuare quale dei 528 pazienti inclusi nello studio avrebbe subito una grave aritmia, e quindi un evento potenzialmente letale, nel tempo. I risultati mostrano che nessun paziente con un rischio previsto del 5% a 5 anni aveva avuto una grave aritmia, mentre più del 95% delle aritmie si era verificata in quei pazienti con almeno il 15% di rischio. Inoltre, il 20,6% dei posizionamenti di ICD si era rivelato non necessario.
Nonostante i risultati promettenti, i ricercatori restano prudenti e si propongono di convalidare il modello su una popolazione diversa da quella inclusa nello studio, in quanto i pazienti, oltre che provenire da cliniche specializzate (14 centri medici statunitensi e europei), avevano nella maggior parte dei casi la mutazione del gene PKP2 come causa della malattia.
Eur Heart J. 2019. doi: 10.1093/eurheartj/ehz103
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/30915475
Fonte Doctor33: https://bit.ly/2UBL13I