Studio diagnostico Pantheon
  • Home
  • Studio
    • Chi siamo
    • Specialisti
    • Qualità/Codice Etico
    • Area Legale
    • Carta dei servizi
    • Statistiche soddisfazione cliente Anno 2018
  • Servizi
    • Ambulatorio di Neurologia, Psichiatria e Neuropsicologia
  • Convenzioni
  • MedNews
  • Contatti
  • Liste di attesa
  • Home
  • Studio
    • Chi siamo
    • Specialisti
    • Qualità/Codice Etico
    • Area Legale
    • Carta dei servizi
    • Statistiche soddisfazione cliente Anno 2018
  • Servizi
    • Ambulatorio di Neurologia, Psichiatria e Neuropsicologia
  • Convenzioni
  • MedNews
  • Contatti
  • Liste di attesa

Neurologia

Studio diagnostico Pantheon > Mednews > Neurologia
Mar19
00

Le trentenni devono imparare a «fermarsi». E a volersi bene

By Redazione - Neurologia,News

GettyImages-898587008-593x443

Sull’orlo di una crisi di nervi, schiacciate tra mille impegni di lavoro e familiari. Dichiarano di non sentirsi bene e hanno ragione. Ansia e depressione sono in agguato

Affaticate, stanche. Sotto pressione sul lavoro, alla continua ricerca di modi per far fronte ai mille impegni della giornata. E convinte di avere una salute un po’ traballante. Non è il ritratto di cinquantenni in crisi per colpa della menopausa ma di donne giovani, a cavallo dei trent’anni. Eppure, già stressate oltre il livello di guardia e soprattutto assai di più delle trentenni degli anni ‘90: da allora è più che raddoppiata la quota di donne che accusano malesseri, ansia, disturbi vari. Il vaso di Pandora della complicata situazione femminile agli inizi del millennio è stato scoperchiato da uno studio svedese pubblicato di recente sulla rivista scientifica PLoS ONE, che ha coinvolto quasi duemila uomini e donne fra i 25 e i 34 anni. La domanda di partenza, posta ai trentenni del 1990 e poi a quelli del 2014, era semplice: «Come ti senti?». Le risposte danno materia su cui riflettere, visto che il grado di benessere percepito da parte degli uomini è risultato sempre più alto di quello delle donne e in costante miglioramento, mentre nell’altra metà del cielo vale esattamente il contrario: alla fine del secolo scorso solo l’8,5% delle trentenni riteneva di star peggio rispetto alle coetanee, oggi la percentuale è del 20%.

Esaurimento fisico e psicologico

Indagando che cosa possa aver compromesso il benessere femminile è emerso che le donne oggi sono più ansiose e insoddisfatte della loro condizione economica rispetto al passato, ma anche più sotto pressione sul lavoro, esposte a un maggior esaurimento fisico e psicologico, schiacciate sotto le aspettative di un mondo che le vuole di successo, attive e pure attraenti. Equilibriste, che non dormono pensando a come far quadrare il cerchio di carriera e famiglia. «Una fatica di vivere che si fa sentire presto: finora l’avevamo vista soprattutto in donne più mature — osserva Giovannella Baggio, presidente del Centro Studi Nazionale su Salute e Medicina di Genere —. A trent’anni non si è ancora malate, ma lo stress e l’ansia che si provano possono avere riflessi pesanti sulla salute futura aumentando il rischio di numerose malattie, dalla depressione alle patologie cardiovascolari». Non si stupisce Francesca Merzagora, presidente dell’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (ONDa), che sottolinea: «Una nostra indagine di due anni fa su un campione di italiane adulte ha mostrato risultati simili: oggi le donne sono più consapevoli delle loro esigenze di salute rispetto al passato, ma ammettono di sentirsi peggio.

La necessità del multitasking

Del resto la vita e il tessuto sociale sono cambiati molto: la necessità di essere multitasking è aumentata, i redditi sono ancora inferiori a quelli degli uomini, tante sono schiacciate fra la cura dei figli e quella dei genitori: il risultato è lo stress, ma un conto è gestirlo da giovani, altro è farlo più avanti». Se a trent’anni ci si rende conto di correre come criceti sulla ruota, ma si hanno le energie per tenersi in piedi, una volta arrivate alla maturità i nodi vengono al pettine e la salute chiede il conto.

Rischio «burnout»

Anche perché le donne sono più sensibili allo stress rispetto agli uomini per motivi squisitamente biologici, come spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano: «Per motivi ormonali e non solo, aree cerebrali come l’amigdala, il giro cingolato anteriore o la corteccia orbito-frontale risultano più “fragili” di fronte agli stimoli che provocano ansia; se a questo si aggiunge un ambiente sociale, familiare e lavorativo stressante, è molto probabile che la donna sviluppi disagi psicologici. Le difficoltà nel conciliare professione e vita privata è ancora fra le cause maggiori di malessere al femminile: le donne hanno un carico complessivo di impegno maggiore, sono più sensibili agli eventuali conflitti personali in ufficio, se fanno fatica ad adattarsi rischiano di più il “burnout”. Dati diffusi in occasione dell’ultima Giornata sulla salute mentale hanno mostrato che circa un terzo delle lavoratrici soffre di condizioni cliniche rilevanti correlate al proprio impiego, come ansia o depressione. Senza contare la somatizzazione dei disagi, che porta a sintomi fisici o problemi come i disturbi del sonno: molto comuni e insidiosi, spesso il primo campanello d’allarme per malattie più gravi».

Le soluzioni

Oltre a peggiorare la qualità di vita, le difficoltà a dormire aumentano il rischio di depressione, sovrappeso e altre patologie: occorre perciò non sottovalutare le notti passate in bianco, ma parlarne al medico e trovare soluzioni. «Le donne devono imparare a chiedere aiuto, a non credersi invulnerabili: un atto di umiltà necessario per “salvarsi” — dice Merzagora —. Altrettanto indispensabile sapersi fermare prima che sia un problema di salute a farlo: trovare tempo per sé, imparare a gestire lo stress possono sembrare raccomandazioni banali, ma è quello di cui le donne oggi hanno bisogno per non essere travolte dalle loro vite in corsa».

Poco aiuto da parte degli uomini

Per uscire dall’impasse di un mondo che non sembra affatto tagliato a misura di donna dovremmo però anche, e soprattutto, cambiare la società aiutando di più le lavoratrici, ma dovrebbe modificarsi anche la testa degli uomini. È l’opinione dello psichiatra Claudio Mencacci, che osserva: «Dividere i compiti in casa in maniera equa sarebbe un primo passo. Tuttora gli uomini hanno ogni giorno 70 minuti liberi da impegni in più rispetto alle donne». Lo ha confermato uno studio che ha messo a confronto il tempo trascorso, nell’occuparsi delle faccende domestiche,dagli ultrasessantacinquenni di vari Paesi europei. Questi i risultati: le italiane passano circa cinque ore al giorno a pulire casa, cucinare e simili, gli uomini del nostro Paese sono i meno presenti quando si tratta di aiutare. Eppure, in nazioni più illuminate dove il carico di lavoro è condiviso migliora la salute di entrambi: lei sente meno la fatica e ha un minor rischio di disturbi del sonno, lui ci guadagna in attività fisica. «La partecipazione serve pure a lui, e non solo quando si parla di faccende domestiche: accudire i figli per esempio fa bene anche all’uomo: ne trae giovamento psicologico e nello stesso tempo rinsalda i legami familiari.«Attenzione però, non è scritto da nessuna parte che ciò si traduca nel giocare coi bambini lasciando sempre a lei il cambio dei pannolini: mamma e papà possono e devono essere intercambiabili in tutti i tipi di compiti» conclude Mencacci.

Fonte Il Corriere della Sera: http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/18_marzo_16/trentenni-salute-stress-ansia-depressione-6a3ad27c-2921-11e8-b8d8-0332a0f60590.shtml

Mar15
00

L’atrofia muscolare progressiva, la malattia di Stephen Hawking.

By Redazione - Neurologia

LONDON - JANUARY 17:  Professor Stephen Hawking delivers his speech at the release of the 'Bulletin of the Atomic Scientists' on January 17, 2007 in London, Ebgland.  A group of scientists assessing the dangers posed to civilisation have moved the Doomsday Clock forward two minutes closer to midnight as an indication and warning of the threats of nuclear war and climate change.  (Photo by Bruno Vincent/Getty Images)

La patologia dei motoneuroni è una variante della più conosciuta SLA ma ha un decorso più lento. Il cervello non invia più impulsi ai neuroni e i muscoli si atrofizzano

L’astrofisico britannico Stephen Hawking morto a 76 anni era malato di atrofia muscolare progressiva (AMP), malattia neurologica del motoneurone (colpisce il 2° motoneurone lasciando intatto il primo). L’atrofia muscolare progressiva è considerata spesso una variante della SLA (la più comune malattia del motoneurone). Ma a differenza dei malati di SLA, chi soffre di atrofia muscolare progressiva può vivere anche 30-40 anni dalla diagnosi con adeguati supporti medici e infermieristici. L’astrofisico Stephen Hawking è sopravvissuto 55 anni dopo la diagnosi, fatta nel 1963. I medici gli avevano dato due anni di vita.

Le malattie del motoneurone

Le malattie del motoneurone sono patologie caratterizzate da una degenerazione precoce dei neuroni di moto (motoneuroni). Quando i motoneuroni sono danneggiati, lo svolgimento di questa operazione è interrotto: i movimenti diventano progressivamente difficoltosi e la massa muscolare si riduce (ipotrofia muscolare). I disturbi presentati dai pazienti variano a seconda della parte del corpo colpita dalla degenerazione motoneuronale: spesso la mancanza di forza è il primo sintomo. Essa può manifestarsi come debolezza di una mano, di una gamba (ipostenia) o come debolezza dei muscoli che permettono di parlare (disartria) o di deglutire (disfagia). Frequentemente all’inizio sono presenti crampi muscolari, soprattutto notturni. Alcuni disturbi non si osservano quasi mai in queste malattie. In particolare, non si assiste a decadimento delle funzioni intellettive, non vengono danneggiate le sensibilità, i pazienti non presentano dolori né disturbi urinari.

La progressione della malattia nell’astrofisico

A Stephen Hawking fu diagnosticata la sclerosi laterale amiotrofica all’età di 13 anni (in realtà si trattava di atrofia muscolare progressiva, che ha uno sviluppo più lento della Sla). Come detto questa patologia non intacca le funzioni intellettive, tanto che Hawking si laureò a soli 20 anni. Ma l’anno successivo iniziano i gravi problemi motori alle mani. Nel 1985 perde l’uso delle corde vocali a causa di una tracheotomia conseguente a una grave forma di polmonite, un altro grave problema dopo che negli anni precedenti era stato ridotto su una sedia a rotelle e impossibilitato ad alimentarsi da solo. L’astrofisico comunicava a fatica grazie a un sintetizzatore vocale ideato per lui.

Per ora nessuna cura

L’evoluzione della malattia è variabile a seconda della forma clinica: al momento è impossibile, per ciascun singolo paziente, prevedere con certezza in che modo progredirà la malattia. È, dunque, impossibile formulare una prognosi precisa relativamente all’evoluzione dell’autonomia motoria.Nonostante numerosi lavori di ricerca scientifica permettano di individuare ipotesi incoraggianti, la causa delle Malattie del Motoneurone resta ancora sconosciuta: pertanto, non si dispone ancora di un trattamento eziologico in grado di guarire la malattia o di migliorare la forza muscolare.

Fonte il Corriere della Sera: http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/18_marzo_14/atrofia-muscolare-progressiva-malattia-stephen-hawking-bac3cf76-275c-11e8-bb9f-fef48ac89c0b.shtml

Feb12
00

Nuova apertura: Ambulatorio di Neurologia, Psichiatria e Neuropsicologia

By Redazione - Neurologia,Neuropsicologia,Psichiatria,Psicologia

SLIDE-AMBULATORIO-PSICOLOGIA

Dal 9 Marzo, sarà attivo presso lo Studio Diagnostico Pantheon un ambulatorio di Neurologia, Psichiatria e Neuropsicologia per la diagnosi e la prevenzione dell’invecchiamento cerebrale fisiologico e patologico, diretto dal Prof. Carlo Blundo.

All’interno del centro è possibile effettuare:

  • Visita neurologica;
  • Visita psichiatrica (ansia, panico, depressione etc..);
  • Test neuropsicologici per la valutazione delle funzioni cognitive;
  • Diagnosi e cura dei disturbi cognitivi e comportamentali secondari a patologie neurologiche;
  • Diagnosi, prevenzione e riabilitazione dei disturbi della memoria;
  • Diagnosi e cura dei disturbi correlati all’invecchiamento cerebrale e alle demenze.

All’interno della sezione dedicata, troverete maggiori informazioni sull’ambulatorio e anche alcuni test di autovalutazione.

Visita la sezione dedicata all’ambulatorio

**Il Prof. Carlo Blundo visiterà il Venerdì pomeriggio dalle ore 14.00 alle ore 19.00. Per chi lo volesse, è già possibile fissare gli appuntamenti.

Dic27
00

Fare troppe cose insieme alla lunga rischia di renderci «stupidi»

By Redazione - Neurologia,Psicologia

GettyImages-671278550-k7fC-U43410764014639JJG-593x443@Corriere-Web-Sezioni

Il multitasking, con il tempo, riduce la materia grigia del cervello e fa diminuire creatività, memoria a lungo termine e persino il nostro quoziente intellettivo

Parliamo al telefono con un collega. Intanto scarichiamo la posta e la scorriamo cancellando lo spam, prendiamo nota di quella commissione da fare una volta usciti dall’ufficio, teniamo d’occhio lo schermo dello smartphone, vedi mai che arrivasse un messaggio importante… Benvenuti nell’ordinaria follia della vita in multitasking: la quotidianità per un numero sempre maggiore di persone impegnate contemporaneamente su molti fronti. Troppi davvero? Sì, ma il cervello ha la sua rete di sicurezza: secondo uno studio pubblicato di recente su Psychological Science da ricercatori dell’università di Los Angeles, infatti, impegnare le risorse mentali su più di un compito alla volta compromette la memoria ma il cervello sa riconoscere le questioni essenziali e non le mette in secondo piano anche se sta facendo altro.

La ricerca

L’esperimento, che ha coinvolto poco meno di duecento volontari, consisteva nel dover ricordare il maggior numero possibile di parole presentate su uno schermo: alcuni potevano concentrare tutta l’attenzione su questo compito, altri nel frattempo ascoltavano musica, altri ancora dovevano premere un tasto del computer quando sentivano tre numeri dispari in sequenza; ogni parola poi compariva assieme a un numero e, per vincere la piccola gara inscenata dagli sperimentatori, i partecipanti dovevano ricordare soprattutto le parole con un «punteggio» più alto. I risultati mostrano che dover portare a termine due compiti insieme (ricordare le parole e segnalare i numeri dispari) peggiora la memoria; tutti invece, indipendentemente dal multitasking o dalle distrazioni, hanno ricordato di più le parole associate a punteggi alti.

Distrazioni

«Quando la nostra attenzione viene divisa non ricordiamo tutto perfettamente, ma siamo ancora capaci di focalizzarci su ciò che riteniamo rilevante — dice Catherine Middlebrooks, autrice dello studio —. Una capacità che è forse un adattamento a un mondo in cui le interruzioni della concentrazione sono sempre di più, basti pensare alle continue notifiche di messaggi sullo smartphone. Tuttavia, se dobbiamo studiare qualcosa di nuovo o applicarci a un compito complesso, meglio evitare distrazioni: ricorderemo di più». «L’essere umano ha una quantità “finita” di energia cognitiva da investire in compiti diversi — osserva Alessandro Lo Presti, responsabile del gruppo di studio su qualità della vita lavorativa e organizzativa al Dipartimento di Psicologia dell’università Vanvitelli di Napoli —. Per essere capaci di multitasking dobbiamo saper cambiare gli obiettivi, spostando spesso l’attenzione per lasciare sullo sfondo ciò che conta di meno in quel momento, e attivare di volta in volta schemi cognitivi differenti; un processo che in sé non è troppo oneroso per il cervello, ma può diventarlo se protratto nel tempo».

Effetti negativi

In altri termini, un conto è essere costretti ogni tanto a gestire varie attività assieme, altro è dover vivere e lavorare in multitasking ogni giorno. In questi casi impegnarsi su più fronti può far male, come spiega Lo Presti: «La maggior parte delle ricerche ha mostrato che il multitasking ha effetti negativi sulle prestazioni: diminuisce la creatività, facilita la distrazione, abbassa la produttività. Va però detto che per controllare al massimo le variabili la maggior parte degli studi vengono condotti in laboratorio: una situazione ben diversa dalla vita vera, quando essere multitasking non significa fare un test mnemonico mentre si sta su una cyclette ma sopravvivere in un open space dove i telefoni squillano, le notifiche di mail e messaggi arrivano in continuazione e tocca rispondere al collega mentre lavoriamo a un documento».

Le conferme

Nella vita vera quindi gli effetti potrebbero essere perfino peggiori e gli studi condotti per capire che cosa succede al cervello mentre si impegna su più questioni allo stesso tempo lo confermano: una ricerca dell’University College di Londra ha mostrato che la densità di materia grigia in alcune aree cerebrali si riduce in chi è abituato a usare vari dispositivi digitali per far più cose assieme e il neuroscienziato Daniel Levitin della McGill University ha riferito che il multitasking aumenta il cortisolo, l’ormone dello stress, e l’adrenalina in circolo.

Impulsività ed errori

Come se non bastasse le tante decisioni da prendere quando siamo impegnati su più «tavoli» ci mandano in tilt rendendoci più impulsivi (e facendoci magari sbagliare su questioni rilevanti) e liberando cannabinoidi, i principi attivi della marijuana: il risultato, stando alle ricerche dello psicologo Glenn Wilson, è che il quoziente intellettivo effettivo si può abbassare anche di una decina di punti, a scapito dell’efficienza cognitiva. In più, il passaggio rapido e continuo di attenzione da un’attività all’altra fa bruciare più energia al cervello, facendoci sentire più stanchi in breve tempo. Ce n’è abbastanza, insomma, per rallentare e concentrarsi per fare (davvero) una cosa alla volta.

Fonte Il Corriere della Sera: http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/17_dicembre_21/multitasking-rischi-memoria-264a774e-e672-11e7-a31d-9c65415bd8d8.shtml

Dic18
00

Dimentichiamo per poter decidere. Troppi ricordi ci paralizzano

By Redazione - Medicina,Neurologia,Psicologia

reminding-2941337_1920

Tenere tutto a mente non sarebbe «un sogno», ma un incubo. Non perché non avremmo spazio per nuove informazioni, ma perché non potremmo agire.

Sarebbe un sogno poter ricordare tutto quello che si è letto anche una sola volta. Per gli studenti sarebbe una pacchia. Fine di tante ore sui libri e del patema da esame. Letto, uguale studiato, uguale mai più dimenticato. Peccato che questo sogno sarebbe allo stesso tempo un incubo, perché la mente ha bisogno di imparare ma anche di dimenticare, altrimenti non sarebbe in grado di svolgere uno dei suoi compiti più importanti: prendere decisioni fondate. In altre parole, la mente deve trovare un equilibrio tra persistenza e transitorietà delle sue memorie, per essere in grado di fare le generalizzazioni necessarie che servono per prendere delle decisioni.

Gli studi

Ecco perché da un punto di vista dell’evoluzione della mente umana si è giunti nel corso dei millenni a questo equilibrio, ed ecco perché sarebbe impossibile e anche svantaggioso ricordare tutto. «Negli ultimi anni c’è stato un incremento del numero delle ricerche focalizzate sui meccanismi della transitorietà della memoria» dicono Blake Richards e Paul Frankland, psicobiologi dell’University di Toronto, autori di un articolo sull’argomento pubblicato sulla rivista Neuron. E citano il caso di un famoso paziente del neuropsicologo sovietico Aleksandr Lurija, che poteva dimenticare solo attraverso uno sforzo attivo della mente, ma che era incapace di generalizzazioni e quindi di prendere decisioni. L’interesse verso la transitorietà, dopo che per molto tempo i neuroscienziati si erano concentrati soprattutto sulla persistenza delle informazioni, segnala un cambiamento nell’approccio allo studio della memoria, dei meccanismi di apprendimento e delle abilità decisionali. Oggi i neuroscienziati cominciano ad avere un’idea chiara della neurobiologia dell’apprendimento.

Come impariamo

Imparare qualcosa vuol dire provocare un cambiamento in un network di neuroni, che rafforzano i collegamenti tra di loro, sostenuti dalle sinapsi, punti di contatto e comunicazione tra queste fondamentali cellule del sistema nervoso. Quando la mente va a ricercare nella memoria quell’informazione, in pratica sta andando a riattivare quello specifico network. Lo stesso succede, al contrario, quando quell’informazione viene dimenticata. In tal caso si perde il rafforzamento delle connessioni in quello specifico network di neuroni che si era creato al momento in cui il ricordo era stato fissato. Un sistema straordinario, che riesce a bilanciare in maniera automatica dimenticanza, e apprendimento, riuscendo a far funzionare la mente così come la conosciamo.

La memoria è più «capiente»

In passato si è creduto per diverso tempo che i processi di dimenticanza servissero a «fare spazio» a nuove informazioni più recenti e quindi potenzialmente più importanti, ma ora si sa che di questo fare spazio il cervello umano non ha bisogno. «Quando consideriamo il numero di neuroni e di sinapsi che ci sono nel cervello, ci rendiamo conto che esiste la potenzialità di immagazzinare molte più informazioni di quelle effettivamente conservate — spiegano i due neurobiologi canadesi —. Il cervello umano possiede circa 80-90 miliardi di neuroni. Se solo ne dedicassimo un decimo a fissare ricordi di specifici eventi, allora, in accordo con stime di capacità in network auto-associativi, potremmo immagazzinare approssimativamente un miliardo di ricordi individuali. Inoltre, se consideriamo i ricordi registrati in maniera diffusa, questo numero potrebbe crescere di diversi ordini di grandezza». Quindi non è un problema di spazio di memoria, come capita con l’hard disk di un personal computer.

Unico «antidoto»? Ripetere

«Noi ipotizziamo che la transitorietà della memoria sia richiesta in un mondo che cambia e che ha un alto livello di rumore informativo di fondo», spiegano i ricercatori. È solo così che gli esseri umani possono avere un comportamento flessibile; se la nostra mente dovesse fotografare tutto indistintamente, prenderebbe decisioni troppo rigide e potrebbe fare ipotesi sul futuro completamente sbagliate. «La persistenza — affermano Richards e Frankland — è utile solo quando conserva quegli aspetti dell’esperienza che risultano stabili o che sono utili per predire come andranno nuove esperienze». Se vogliamo provare a limitare la perdita di informazioni di ciò che ci interesserebbe trattenere dopo averlo studiato, si deve per forza passare attraverso la fatica delle continue ripetizioni. Secondo Robert Bjork, del Department of Psychology, University of California a Los Angeles, l’unico modo conosciuto per tentare di frenare questo colabrodo della memoria è ripetere e ripetere, per rinforzare così le tracce mnemoniche. Ma bisogna ripetere in maniera da creare spazi temporali adeguati tra una ripetizione e l’altra, che devono essere né troppo lunghi né troppo brevi, altrimenti l’effetto di rinforzo si perde. E comunque, alla fine, quando si smetterà di ripetere, una gran parte delle informazioni colerà via. È la temuta «curva della dimenticanza».

Chi vuole imparare deve alternare sonno e studio

Un breve sonno, un po’ di studio, un altro pisolino. È il ritmo non dello studente pigro, ma di chi ricorderà meglio la lezione. Il sonno è infatti un facilitatore del consolidamento della memoria, come spiega Susanne Diekelmann, neurobiologa dell’Università di Tubingen, in Germania, in un articolo pubblicato su Frontiers in System Neuroscience. Due sono le teorie che spiegano questa funzione del sonno: le nuove acquisizioni sono riattivate e riorganizzate durante il sonno, così che risultano potenziate; tutte le connessioni sinaptiche sono depotenziate mentre si dorme, tranne quelle dovute alle nuove acquisizioni, così che queste risultano in qualche modo «spiccare» sulle altre. Adesso la ricerca si sta orientando verso lo studio di possibili manipolazioni della riattivazione dei ricordi durante il sonno, attraverso l’uso degli odori o di stimoli acustici di richiamo della memoria.

Il disegno «fissa» le lezioni più del computer

Se un testo è accompagnato da foto e disegni è più facile impararlo e l’utilizzo degli strumenti multimediali consente di associare utilmente testo e immagini, ma resta centrale il livello di attenzione dello studente: «Nella nostra pratica di insegnamento abbiamo notato che gli studenti, mentre utilizzavano immagini interattive computerizzate di tessuti biologici, non le osservavano con attenzione — ha dichiarato un gruppo di ricercatori olandesi, guidati da Monique Balemans, in un articolo su Anatomical Sciences Education. Così si è deciso di tornare alle vecchie maniere, chiedendo agli studenti di disegnare le immagini. Una verifica a una, quattro e sei settimane di distanza ha consentito di verificare che gli studenti che avevano disegnato le immagini mostravano un tasso più elevato di ritenzione dell’apprendimento, rispetto a chi aveva solo osservato le immagini».

Fonte Il corriere della sera: http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/17_dicembre_14/dimentichiamo-poter-decidere-troppi-ricordi-ci-paralizzano-788bef38-e0b4-11e7-acec-8b1cf54b0d3e.shtml

Ott12
00

Le donne sono più generose? La risposta è nel cervello

By Redazione - Genetica,Neurologia,News

model-849762_1920

Una nuova ricerca svizzera ha dimostrato come il cervello delle donne potrebbe essere più attivo quando si tratta di comportamenti prosociali, rendendole così più generose

“Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere”. Pianeti diversi, anche quando si parla di generosità: il cervello delle donne sarebbe più attivo quando si tratta di comportamenti altruistici. A riferirlo sulla pagine di Nature Human Behavior sono stati i ricercatori svizzeri dell’Università di Zurigo, secondo cui la maggiore generosità femminile sarebbe dovuta a una differente sensibilità alla dopamina, il neurotrasmettitore che ci fa sentire più motivati e felici quando svolgiamo atti altruistici.

Per capirlo, il team di ricercatori ha coinvolto 55 volontari, 27 donne e 28 uomini, suddividendoli in due gruppi, prima di somministrare loro due tipi di pillole: un farmaco in grado di bloccare la dopamina, l’amisulpride (e quindi il sistema di ricompensa) oppure un placebo. I due gruppi hanno dovuto svolgere alcuni esperimenti comportamentali, tra cui quello di scegliere se ricevere una manciata di franchi svizzeri tutti per sé oppure una ricompensa più piccola da condividere con una persona dello stesso gruppo.

Una volta concluso l’esperimento, i due gruppi hanno ricevuto l’altra pillola per essere così nuovamente testati.

Dai risultati è emerso che le donne, quando hanno preso il placebo, hanno scelto di condividere il denaro nel 51% di casi. Gli uomini, invece, lo hanno fatto per il 40% delle volte. Con il farmaco, invece, la situazione risultava invertita: le donne si sono dimostrate più egoiste, accettando di condividere il denaro solo nel 45% delle volte, mentre gli uomini si sono dimostrati più prosociali, decidendo di condividere la somma di denaro nel 44% dei casi.

Secondo i ricercatori, sarebbe quindi la dopamina a differenziare i cervelli dei due sessi quando si parla di generosità: bloccandone l’azione con un farmaco il comportamento di uomini e donne diviene infatti lo stesso. Studi futuri dovranno tener conto maggiormente delle differenze di genere. Anche se, come evidenziano i ricercatori, la loro rimane per ora solamente un’ipotesi: oltre al fatto che il campione è molto piccolo, infatti, non è ancora chiaro se questa differenza può essere considerata innata o se è il risultato di decenni di condizionamento sociale.

C’è, quindi, ancora molta strada da fare per capire meglio le sottili interazioni genetiche, culturali e anatomiche che determinano i comportamenti sociali dei due sessi. E chissà: magari finiremo per scoprire che uomini e donne vengono in realtà dallo stessa pianeta.

Fonte Wired Italia: https://www.wired.it/scienza/lab/2017/10/11/donne-generose-cervello/

Set27
00

Sclerosi multipla: una proteina rilasciata dalle cellule staminali riduce l’infiammazione nel cervello

By Redazione - Neurologia

brain_5

Spiega perché nei topi il trapianto di cellule staminali riduce i danni della malattia

Appena 4 mesi fa, all’Ospedale San Raffaele di Milano era cominciato il primo studio clinico al mondo che verificare la sicurezza del trattamento della sclerosi multipla progressiva con infusione di cellule staminali del cervello.

Ora, mentre quella sperimentazione va avanti senza intoppi, un gruppo di ricercatori della stessa struttura spiega uno dei possibili meccanismi attraverso cui il trapianto di cellule staminali dà benefici contro la malattia.

Secondo lo studio, pubblicato sul Journal of Clinical Investigation, le cellule, una volta infuse, riducono l’infiammazione nel cervello dovuta alla malattia attraverso il rilascio di una proteina denominata TGF-β2.

Un’ipotesi che parte da lontano 

L’efficacia del trapianto di cellule staminali neurali nei topi affetti da EAE, il modello sperimentale di sclerosi multipla, è nota da tempo: la scoperta, frutto del lavoro del gruppo di Gianvito Martino, a capo dell’Unità di Neuroimmunologia, nonché direttore scientifico dell’istituto, risale ai primi anni 2000. Da lì, si è passati quest’anno ai test sull’uomo finalizzati, per il momento, a verificare la sicurezza dell’infusione delle staminali del cervello in pazienti con sclerosi multipla progressiva.

Tuttavia, la spiegazione del meccanismo attraverso cui il trapianto di cellule staminali è in grado di placare gli effetti della malattia non sono ancora del tutto chiari.

La proteina “interruttore”

Ora, un tassello importante è stato aggiunto grazie alla scoperta del ruolo della proteina TGF-β2: viene rilasciata dalle staminali ed è capace di modificare il comportamento di alcune cellule del sistema immunitario da pro- ad anti-infiammatorio. La trasformazione indotta in queste cellule è fondamentale, perché nella sclerosi multipla sono loro ad attivare i linfociti T, diretti responsabili del danno cerebrale. In sostanza, tramite TGF-β2, le cellule staminali interferiscono nella catena di comando che porta all’aggressione del tessuto nervoso.

«L’azione delle cellule staminali è indotta dai segnali rilasciati dal tessuto danneggiato in cui vengono trapiantate ed è dovuta al rilascio di varie molecole tra cui quella da noi identificata», spiega Martino. «Le staminali sono paragonabili a cavalli di Troia che rilasciano le giuste molecole nella giusta quantità a seconda di dove si trovano e del tipo di danno che devono affrontare. Nello studio dimostriamo tuttavia che TGF-β2 ha un ruolo fondamentale e necessario: senza di lei tutta l’azione terapeutica sarebbe certo indebolita».

La ricerca è stata svolta con il sostegno della Fondazione Italiana Sclerosi Multipla (FISM), dall’associazione Amici del Centro Sclerosi Multipla (ACeSM) Onlus dell’Ospedale San Raffaele, da BMW Italia e dalla Fondazione Cariplo, che hanno seguito lo sviluppo della terapia STEMS fin dal principio.

Fonte Health Desk: http://www.healthdesk.it/ricerca/sclerosi-multipla-proteina-rilasciata-cellule-staminali-riduce-infiammazione-cervello

Giu5
00

Infarto ed ictus: sintomi, cause e prevenzione

By Redazione - Cardiologia,Neurologia

Salk

Infarto ed ictus insieme uccidono 13 milioni di persone, mentre con le altre patologie cardiovascolari costituiscono la prima causa di morte nel mondo e sono responsabili di un terzo della mortalità globale.

 Eppure ben l’80% di queste morti potrebbero essere evitate se si prestasse più attenzione ai fattori di rischio come il tabacco, l’alimentazione scorretta e l’inattività fisica.

Fra le tante patologie, l’infarto e l’ictus sono considerati eventi cardiovascolari maggiori e colpiscono in egual misura donne e uomini. Il rischio d’infarto per la donna è inferiore prima della menopausa poi, oltrepassata questa fase, il rischio diventa uguale a quello dell’uomo.

Infarto ed ictus sono dovuti per la maggior parte dei casi al mancato apporto di sangue al cuore o al cervello; ciò è determinato in buona percentuale dall’arteriosclerosi, patologia in cui i vasi diventano via via più stretti e meno flessibili a causa del deposito di grassi sulle loro pareti interne. In questa situazione è chiaro che un coagulo di sangue ha maggiore probabilità di ostruire un vaso.

I vasi più colpiti sono le coronarie e quelli che apportano sangue al cervello: i tessuti del cuore e del cervello, a seguito dell’ostruzione, andranno incontro ad ischemia, ipossia (mancanza di ossigeno), e necrosi.

Un’altra causa di ictus può essere la rottura ed il sanguinamento di un vaso del cervello che danneggia i tessuti, si parla così di emorragia cerebrale ed il principale fattore di rischio è l’ipertensione.

Fattori di rischio

Possono essere classificati in non modificabili, modificabili ed intermedi.

Nei primi rientrano l’invecchiamento, la familiarità, lo stress e l’ambiente in cui si vive. Quelli modificabili invece sono quelli su cui può agire efficacemente una corretta prevenzione e sono, come già accennato, il fumo, la dieta scorretta e l’assenza di moto.

I sanitari infatti possono agire consigliando ai propri pazienti stili di vita più consoni ed incoraggiando gli screening nei soggetti con familiarità per le malattie cardiovascolari, gli ultracinquantenni, le donne in gravidanza, gli ipertesi ed i diabetici.

Se questi fattori di rischio modificabili, cioè le cattive abitudini, sono protratti nel tempo danno origine ai fattori di rischio intermedi: ipertensione, diabete, obesità, aumento dei trigliceridi ed ipercolesterolemia.

Ad esempio l’ipertensione è il principale fattore di rischio per l’infarto ed uno dei più importanti fattori di rischio cardiovascolare: chiamato anche killer silenzioso, poichè non dà sintomi chiari,  richiede  una misurazione della pressione sanguigna almeno una volta l’anno.

Il diabete raddoppia il rischio cardiovascolare: esso infatti favorisce l’insorgere dell’arteriosclerosi e causa danni a vari organi e tessuti. Si parla di diabete quando a digiuno il livello di zuccheri nel sangue supera i 126 mg/dl e coloro che hanno valori compresi tra 110 e 126 mg/dl sono considerati ad alto rischio di svilupparlo nel tempo.

Alti livelli di colesterolo nel sangue sono responsabili di un terzo delle malattie cardiovascolari. Il colesterolo viene trasportato nel sangue da due differenti forme di lipoproteine: le HDL trasportano il colesterolo “buono” in quanto questo viene eliminato, mentre le LDL tendono a depositare il colesterolo sulle pareti dei vasi aumentando quindi il rischio di ostruzione. Le norme europee danno alcuni valori guida relativi al colesterolo: colesterolo totale inferiore a 190 mg/dl , colesterolo HDL superiore a 40 mg/dl nell’uomo e a 46 mg/dl nella donna, colesterolo LDL inferiore a 115 mg/dl. Così anche i trigliceridi è importante che siano controllati, il loro valore deve essere inferiore a 150 mg/dl.

Prevenzione

Per prima cosa cercare di essere attenti nel riconoscere i sintomi, infatti due terzi degli infartuati arrivano in ospedale troppo tardi ed il 60% di coloro che sono colpiti da ictus, anche se curati nel modo migliore possibile, muore o rimane invalido. E’ dunque di fondamentale importanza la rapidità d’intervento, se ci pensiamo bene il cuore ed il cervello sono gli organi più irrorati di sangue proprio perché non possono sopravvivere a lungo senza ossigeno.

Impariamo quindi a riconoscerne i sintomi.

Sintomi dell’infarto

L’infarto di solito si presenta in modo acuto ed intenso, ma a volte può nascere in sordina con poco dolore, lieve malessere; in caso di dubbio è meglio recarsi al pronto soccorso. Nelle crisi acute il sintomo principale è il forte dolore al centro del torace che persiste più di 20 minuti o è ricorrente; si raccomanda tuttavia di non aspettare così a lungo in presenza di altri sintomi o in pazienti a rischio, un intervento tempestivo può salvare la vita. Si consiglia in genere di non aspettate più di 5 minuti per chiamare il 118. Oltre al dolore può essere avvertito un senso di oppressione, un bruciore o una morsa. Il dolore può irradiarsi alle braccia, alla spalla sinistra, ai gomiti, alla mascella ed alla schiena. Oltre al dolore è possibile che si avvertano altri sintomi come respiro corto, nausea, vomito, pallore, debolezza, sudori freddi. In alcuni pazienti diabetici a volte non si ha neppure il dolore, questo a causa di una neuropatia.

L’angina pectoris si verifica quando i vasi sanguigni sono parzialmente ostruiti ma il flusso non si arresta; si manifesta con un dolore acuto al torace che dura meno di 2 minuti ed è scatenato da un’attività fisica, da stress, da emozioni forti o da sbalzi anomali di temperatura. Chi soffre di angina è più a rischio di infarto rispetto ad altri pazienti quindi è bene monitorare i sintomi e recarsi al pronto soccorso se il dolore persiste nonostante il riposo o l’eventuale assunzione di farmaci vasodilatatori.

Sintomi dell’ictus

Il sintomo più comune dell’ictus è un’improvvisa debolezza ad un arto o indolenzimento di un lato del volto; si può inoltre avvertire confusione mentale, difficoltà di parola, perdita di equilibrio e di coordinazione. Il tutto può essere accompagnato da un fortissimo dolore alla testa anche con perdita dei sensi. A seconda della zona del cervello interessata, l’ictus può colpire una sola parte del corpo, tutto un lato o nei casi più gravi essere addirittura mortale.

L’ischemia temporanea si manifesta con sintomi simili a quelli dell’ictus, ma meno intensi, che si risolvono in breve tempo, spesso senza terapie. E’ comunque necessario recarsi al pronto soccorso perché l’ischemia temporanea potrebbe essere un segno premonitore di ictus.

Come agire sui fattori di rischio modificabili

  • Innanzitutto curare la dieta: mangiare almeno 400-500 g di frutta e verdura al giorno perché ,grazie al loro contenuto di anti-radicali liberi, proteggono i vasi e i tessuti del cuore e del cervello.
  • Diminuire l’uso di sale da cucina: l’OMS ha stimato che riducendo la quantità di sale giornaliera di 3 g farebbe scendere del 22% la mortalità da infarto e del 16% quella per malattie coronariche.
  • Consumare più fibre.
  • Limitare l’uso dei cibi grassi e fritti: i grassi saturi e quelli idrogenati sono più pericolosi perché aumentano il colesterolo LDL.
  • Consumare pesce almeno 2 volte alla settimana perché contiene i grassi omega 3 protettori delle arterie, eventualmente si possono assumere integratori alimentari.
  • Limitare il consumo di alcool, bere cioè non più di 2 bicchieri al giorno.

Non meno importante è tenere sotto controllo il peso sia con una dieta corretta che facendo attività fisica. L’indicatore primario per capire se si è in sovrappeso o no è l’indice di massa corporea (BMI) che è il rapporto tra il peso ed il quadrato dell’altezza espresso in metri. Se il BMI è maggiore di 25 si è in sovrappeso, se è maggiore di 30 si parla di obesità.

Risulta essere molto pericoloso il grasso addominale: il girovita per l’uomo non dovrebbe oltrepassare i 120 cm e nella donna gli 88 cm.

L’attività fisica è molto salutare in quanto riduce la glicemia, la pressione, i grassi nel sangue, lo stress e migliora la circolazione sanguigna e l’ossigenazione dei tessuti oltre a contribuire a tenere sotto controllo il peso.

E’ sorprendente constatare che l’inattività fisica porti ad accrescere il rischio cardiovascolare fino ad un 150%: è sufficiente spendere 30 minuti della propria giornata in attività fisica anche moderata come camminare, salire e scendere le scale ecc.

Fonte Farmaco e Cura: http://www.farmacoecura.it/prevenzione/infarto-sintomi-ictus-cause-prevenzione/#steps_0

GUARDA L’INTERVISTA ALLA CARDIOLOGA SULLA PREVENZIONE CARDIOVASCOLARE

Mag30
00

Quando la depressione è un effetto collaterale della malattia

By Redazione - Neurologia,News,Oncologia,Psicologia

worried-girl-413690_1920

In Italia chi soffre di depressione nell’83 per cento dei casi si rivolge a uno psichiatra e nell’87 per cento dei casi è in trattamento farmacologico per la malattia.

Nei casi in cui la depressione deriva dalle difficoltà nell’affrontare un’altra malattia (per esempio il diabete o il cancro) solo 1 una persona su 5 si rivolge allo psichiatra e solo 1 su 2 riceve farmaci specifici.

È questo uno dei paradossi su cui ha messo l’accento un’indagine presentata oggi a Milano e volta a esplorare il tema della depressione in generale e la relazione tra questa e alcune malattie quali tumori, malattie reumatiche e diabete sia da un punto di vista qualitativo, su un campione di 18 pazienti e caregiver, sia quantitativo, su un campione di 240 pazienti.

L’indagine, promossa dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda), si è avvalso della collaborazione di numerose associazioni di pazienti tra cui AIMAC, Associazione Italiana Malati di Cancro, parenti e amici, ANMAR, Associazione Nazionale Malati Reumatici, APMAR, Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare, Europa Donna Italia, FAND, Associazione Italiana Diabetici e SIP, Società Italiana di Psichiatria, ed è realizzato con il contributo incondizionato di Janssen, azienda farmaceutica di Johnson & Johnson.

«La depressione, quando legata o conseguenza di altre malattie, è per lo più sottovalutata sia da chi ne soffre sia dai medici, quasi considerata un effetto collaterale scontato», ha detto Francesca Merzagora sintetizzando i dati dell’indagine secondo cui la depressione colpisce 1 persona su 4 con malattie reumatiche, quasi 1 malato di tumore su 6 e il 2% di coloro che hanno il diabete.

«La depressione è una malattia che condiziona completamente l’esistenza sia delle persone che ne soffrono sia di coloro che se ne prendono cura», ha aggiunto Merzagora. «Secondo gli intervistati sintomi quali tristezza (75%), pensieri negativi (72%), perdita di interesse nel fare le cose (65%), di energia (62%) e un senso di solitudine da cui è difficile trovare sollievo (60%) sono quelli che maggiormente incidono sulla qualità di vita. La tristezza e la solitudine a volte è talmente forte e la percezione del futuro è così negativa che oltre 1 persona malata di depressione su 2 dichiara di aver avuto pensieri suicidari, tra questi 1 su 4 tre o quattro volte nell’ultimo mese. Anche i familiari e coloro che si prendono cura della persona depressa si trovano a vivere e soprattutto subire una situazione molto pesante nella quale tutte le energie sono concentrate sul malato».

«I risultati di questa indagine, prima nel suo genere, hanno messo in luce due aspetti molto significativi della vita e del percorso di cura dei pazienti: quanto sia fondamentale, per perseguire benessere e salute completi, che siano considerate come persone a 360 gradi, non solo legati a un’unica dimensione patologica, e quanto sia importante continuare a combattere lo stigma legato ancora oggi alla malattia mentale», ha affermato Massimo Scaccabarozzi, amministratore delegato e oresidente di Janssen Italia. «Il nostro impegno come Janssen, da 60 anni a questa parte, è minimizzare l’impatto delle patologie mentali sui pazienti, grazie alla ricerca di soluzioni terapeutiche innovative. Siamo impegnati nell’identificare nuovi target per la depressione, l’insonnia e la schizofrenia. L’obiettivo è unire l’efficacia terapeutica dei farmaci con la riabilitazione e il conseguente reinserimento in società dei pazienti; lo dimostra il progetto Triathlon – Indipendenza, Benessere, Integrazione nella Psicosi – ideato per far fronte alle criticità che, quotidianamente, caratterizzano l’assistenza e il trattamento delle persone che soffrono di psicosi».

Fonte HealthDesk: http://www.healthdesk.it/medicina/quando-depressione-effetto-collaterale-malattia

Apr27
00

Emicrania in agguato per chi è lontano dal peso forma

By Redazione - Alimentazione,Neurologia,Nutrizione

Headache

Per le persone obese il rischio di soffrire di emicrania aumenta del 27 per cento rispetto a chi ha un peso nella norma. In caso di sottopeso il rischio aumenta del 13 per cento. Sono i risultati di uno studio pubblicato su Neurology.

Sovrappeso e sottopeso sono entrambi fattori di rischio per l’emicrania. Lo sostiene uno studio pubblicato su Neurology, rivista della American Academy of Neurology.

Si tratta di una review condotta analizzando i risultati di tutti gli studi disponibili sul rapporto tra indice di massa corporea e mal di testa. I ricercatori hanno raccolto dati da 12 studi che hanno coinvolto in totale circa 290 mila partecipanti. Trovando che le persone obese, i pesi massimi, avevano il 27 per cento di probabilità i più di soffrire di emicrania rispetto a chi ha un peso normale. Le persone molto magre, i pesi piuma, invece, al di sotto dei valori standard, sono più esposte ai dolori emicranici del 13 per cento in confronto ai pesi medi.

La definizione di obesità scatta con un indice di massa corporea maggiore di 30, mentre il sottopeso si registra con valori inferiori a 18,5.

I ricercatori hanno inoltre osservato che nelle persone obese il rischio di soffrire di emicrania è equivalente a quello di venire colpiti da disturbo bipolare e cardiopatia ischemica. Dallo studio è emerso anche che tra le donne e le persone più giovani sia l’obesità che l’emicrania sono più diffuse.

«Non è chiaro – dice Lee Peterlin della Johns Hopkins University School of Medicine e membro dell’ American Academy of Neurology – come l’aspetto fisico possa influire sull’emicrania. Il tessuto adiposo rilascia un’ampia gamma di molecole che possono avere un ruolo chiave nel sviluppare o innescare il mal di testa. È anche possibile che altri fattori come cambiamenti nell’attività fisica, medicinali, o altre condizioni di salute come la depressione contribuiscano a spiegare il rapporto tra obesità ed emicrania».

Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità almeno metà della popolazione adulta tra i 18 e i 65 anni ha avuto ha sofferto di mal di testa nell’ultimo anno. Di queste il 30 per cento ha avuto un attacco di emicrania.

«Visto che sia  l’obesità che l’eccessiva magrezza sono fattori di rischio per l’emicrania potenzialmente modificabili – conclude Peterlin – prenderne atto è di vitale importanza sia per i medici che per i pazienti. Sono comunque necessarie maggiori ricerche per valutare se effettivamente gli interventi per ridurre o aumentare il peso possono avere un effetto positivo sul mal di testa».

Fonte HealthDesk: http://www.healthdesk.it/medicina/emicrania-agguato-chi-lontano-peso-forma

Page 2 of 3123

Articoli recenti

  • I batteri che popolano l’intestino possono influenzare la salute mentale
  • Boom chirurgia estetica, troppi i falsi medici con titoli inventati
  • Nel 2018 alcuni studi hanno modificato conoscenze scientifiche consolidate. Ecco i principali
  • Alimentazione, Simg: così i Mmg educano le famiglie a una dieta sana
  • Omega-3, due studi confermano utilità in prevenzione cardiovascolare. I contenuti

Commenti recenti

  • Anonimo su Il killer silenzioso: pressione alta sintomi, cause e rimedi
  • Alessandro su Il killer silenzioso: pressione alta sintomi, cause e rimedi
  • Alessandro su Il killer silenzioso: pressione alta sintomi, cause e rimedi
  • Redazione su Il killer silenzioso: pressione alta sintomi, cause e rimedi
  • Anonimo su Il killer silenzioso: pressione alta sintomi, cause e rimedi

Archivi

  • febbraio 2019
  • gennaio 2019
  • dicembre 2018
  • novembre 2018
  • ottobre 2018
  • settembre 2018
  • agosto 2018
  • aprile 2018
  • marzo 2018
  • febbraio 2018
  • gennaio 2018
  • dicembre 2017
  • novembre 2017
  • ottobre 2017
  • settembre 2017
  • luglio 2017
  • giugno 2017
  • maggio 2017
  • aprile 2017
  • marzo 2017
  • febbraio 2017
  • gennaio 2017
  • dicembre 2016
  • novembre 2016
  • ottobre 2016
  • settembre 2016
  • agosto 2016
  • luglio 2016
  • giugno 2016
  • maggio 2016
  • aprile 2016
  • marzo 2016
  • febbraio 2016
  • dicembre 2015
  • novembre 2015
  • ottobre 2015
  • settembre 2015
  • luglio 2015
  • maggio 2015

Categorie

  • Alimentazione
  • Allergologia
  • Andrologia
  • Angiologia
  • Cardiologia
  • Chirurgia Estetica
  • Dermatologia
  • Diabetologia
  • Ematologia
  • Endocrinologia
  • Endometriosi
  • Fisioterapia
  • Gastroenterologia
  • Genetica
  • Ginecologia
  • Immunologia
  • Laboratorio
  • Malattie Infettive
  • Medicina
  • Medicina Estetica
  • Microbiologia
  • Neonatologia
  • Neurologia
  • Neuropsicologia
  • News
  • Nutrizione
  • Oculistica
  • Odontoiatria
  • Omeopatia
  • Oncologia
  • Ortopedia
  • Osteopatia
  • Ostetricia
  • Pediatria
  • Posturologia
  • Prevenzione
  • Psichiatria
  • Psicologia
  • Radiologia
  • Reumatologia
  • Senologia
  • Senza categoria
  • Sessualità
  • Sportello Rischio Suicidario
  • Urologia
  • Varie

Studio Diagnostico Pantheon Srl

Via Giustiniani, 12 - 00186 Roma
Tel. 06-6873953 / 06-68805685 - Fax 06-68806358
Numero verde 800-901176

Per informazioni di carattere generale:
informazioni@pantheonmed.it

Aggiornamento ogni 15 giorni

NEWSLETTER





Acconsento

Copyright © 2016 Studio Diagnostico Pantheon. Tutti i diritti riservati - Privacy policy Cookie policy - Powered by Ab servizi e consulenze
PIVA 0124761105 - C.F. 03832840585