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Immunologia

Studio diagnostico Pantheon > Mednews > Immunologia
Dic9
00

Tumori, rivoluzione biopsia liquida: «Con un prelievo di sangue si taglia la strada al male»

By Redazionebis - Ematologia,Genetica,Immunologia,Laboratorio,Medicina,News,Oncologia

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Un semplice prelievo di sangue che può prevenire e analizzare gli sviluppi dei tumori e aiutare a intervenire sulle cellule tumorali affinché queste diventino meno aggressive. «La biopsia liquida è uno strumento innovativo e, a mio parere, rivoluzionario per studiare l’evoluzione della malattia tumorale. Il tumore tende a sfuggire alle terapie, per cui un paziente che inizialmente risponde potrebbe non farlo più e recidivare. Ma la recidiva non è la stessa malattia di prima». A spiegarlo all’Adnkronos Salute è Gennaro Ciliberto, direttore scientifico dell’Istituto Regina Elena di Roma, dove sono in corso numerose sperimentazioni sulla biopsia liquida. Nella sostanza, un semplice prelievo di sangue consente di anticipare le mosse dei tumori e permette di tagliare loro la strada, impedendo che diventino più aggressivi.

«Il tumore, con il tempo, può cambiare o, come diciamo noi, mutare. Per monitorarlo oggi si deve fare una biopsia, che è però una procedura invasiva, e non tutti i pazienti sono in condizione di eseguirla», aggiunge l’esperto. L’eccezionalità della biopsia liquida è che «basta un prelievo di sangue, e alcune analisi ci permettono di vedere le sostanze che il tumore rilascia nel sangue».

Con la biopsia liquida il medico può seguire la storia clinica del paziente in tempo reale, tenersi aggiornato e ottenere informazioni cruciali per adattare la terapia con relativa facilità. Per esempio, può sapere se il tumore sta rispondendo al trattamento (chirurgico e medico), se stanno insorgendo resistenze, se il tumore è in una fase quiescente o si sta attivando, o anche se ci sono altri farmaci a bersaglio molecolare potenzialmente utilizzabili, ricordano dal Regina Elena.

Un approccio non invasivo che punta verso la personalizzazione delle cure, e il contenimento dei costi per il Servizio sanitario nazionale: permetterebbe, infatti, di evitare terapie (e tossicità) inutili. Ma la biopsia liquida è già una realtà? «Facciamo molti studi sperimentali, ma queste analisi devono ora passare dalla fase sperimentale all’attuazione pratica, tramite la rimborsabilità», dice Ciliberto. «Attualmente, tranne un paio di casi, la biopsia liquida non è rimborsata dal Ssn. Oggi noi al Regina Elena la offriamo ai nostri pazienti grazie proprio alle sperimentazioni che abbiamo in corso. Un vantaggio in più per i malati». Ma anche per i medici. «Passare alla fase in cui la biopsia liquida sarà rimborsata a tutti i pazienti permetterebbe di avere a disposizione uno strumento davvero prezioso», conclude.

Fonte https://bit.ly/37SqEmJ

Ott25
00

Alzheimer, scoperta rivoluzionaria apre porte a vaccino: potrebbe prevenire 50-80% dei casi

By Redazionebis - Genetica,Immunologia,Laboratorio,Malattie Infettive,Medicina,Neurologia,Neuropsicologia,News,Prevenzione

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Un team di ricerca dell’Università del Texas Sudoccidentale è riuscito per la prima volta a neutralizzare gli effetti negativi di uno dei fattori genetici responsabili dell’Alzheimer, l’alipoproteina E4. Questa molecola sarebbe in grado di favorire l’accumulo delle placche di beta amiloide nelle cellule e determinare la neurodegenerazione. La scoperta apre le porte a un vaccino innovativo che potrebbe prevenire moltissime diagnosi.

Bloccata per la prima volta in laboratorio l’azione tossica di una proteina che favorisce l’accumulo delle placche di beta amiloide nelle cellule, un traguardo che potrebbe portare a un rivoluzionario vaccino (o a un altro tipo di farmaco) in grado di prevenire dal 50 percento all’80 percento dei casi di Alzheimer, la forma di demenza più diagnosticata al mondo. A riuscire nell’impresa un team di studiosi del Centro per la ricerca di neurodegenerazione traslazionale e del Medical Center presso l’Università del Texas Sudoccidentale di Dallas.

Gli scienziati, coordinati dal dottor Joachim Herz, ricercatore presso il Dipartimento di genetica molecolare dell’ateneo americano, hanno concentrato la propria indagine attorno alle alipoproteine, un gruppo di proteine che si lega ai lipidi (come il colesterolo) ed è in grado di trasportarli nei vari distretti dell’organismo, compreso il tessuto cerebrale. Esistono diverse varianti genetiche di queste alipoproteine (ApoE2, ApoE3, ApoE4 etc etc), e da studi precedenti è stato dimostrato che le persone che esprimono l’ApoE4 hanno un rischio di sviluppare l’Alzheimer dieci volte superiore rispetto ai portatori delle altre forme principali. In parole semplici, ApoE4 genera dei veri e propri “ingorghi” nel traffico cellulare, favorendo l’accumulo dei grovigli di proteina tau e placche di beta amiloide, che sono intimamente connesse con la neurodegenerazione e i sintomi fisici e cognitivi della demenza.

Herz e colleghi hanno scoperto in esperimenti su topi che abbassando il pH dei corpi vescicolari che si occupano del trasporto delle sostanze all’interno delle cellule (chiamati endosomi) è possibile prevenire la formazione degli ingorghi causati da ApoE4. In altri termini, si può ostacolare uno dei fattori genetici considerati più impattanti nello sviluppo del morbo di Alzheimer. Per riuscire nell’impresa gli scienziati americani hanno agito geneticamente e farmacologicamente su una proteina chiamata NHE6, che è responsabile dell’acidità degli endosomi.

Questa scoperta getta le basi per la creazione di un farmaco o di un vaccino da somministrare prima dei 40 anni, potenzialmente in grado di prevenire il rischio di sviluppare la più temuta forma di demenza (si stima colpirà 115 milioni di persone entro il 2050). “Una semplice pillola potrebbe un giorno neutralizzare il rischio del morbo di Alzheimer a esordio tardivo, così come le statine facilmente disponibili sono in grado di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari”, ha dichiarato con entusiasmo il dottor Herz. I dettagli della ricerca sono stati pubblicati sul sito dell’ateneo di Dallas e sulla rivista scientifica eLife.

Fonte: https://bit.ly/2W7VMJa

Ott2
00

Infezioni del tratto urinario: gli inibitori del SGLT-2 sono sicuri

By Redazionebis - Diabetologia,Immunologia,Laboratorio,Malattie Infettive,Urologia

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L’uso degli inibitori del cotrasportatore sodio-glucosio di tipo 2 (SGLT-2) nel trattamento del diabete mellito di tipo 2 non aumenta il rischio di infezioni del tratto urinario (UTI) rispetto ad altre due classi di farmaci antidiabetici (gli inibitori della dipeptidil peptidasi 4 [DPP-4] e gli agonisti del recettore del glucagon-like peptide-1 [GLP-1]). Questa è la conclusione di uno studio, pubblicato su Annals of Internal Medicine, condotto su un’ampia popolazione di adulti diabetici statunitensi. «Studi precedenti sulla valutazione del rischio di UTI gravi con gli inibitori del SGLT-2 hanno riportato risultati contrastanti» afferma il primo autore Chintan Dave, del Brigham and Women’s Hospital di Boston.

I ricercatori hanno creato 2 coorti, ognuna con più di 100.000 individui, in cui i pazienti trattati con gli inibitori del SGLT-2 sono stati abbinati, in un rapporto 1:1, con pazienti trattati con gli inibitori della DPP-4 (coorte 1) o con gli agonisti del recettore del GLP-1 (coorte 2). In un periodo di circa 2 anni, non sono state evidenziate differenze nei tassi di UTI gravi tra i trattamenti. Infatti, nella coorte 1 gli individui colpiti da infezioni gravi sono stati 61 nel gruppo in terapia con gli inibitori del SGLT-2 e 57 in quello con gli inibitori della DPP-4 (tasso di incidenza 1,76 e 1,77 casi per 1.000 anni-persona, rispettivamente; P=0,93). Nella coorte 2, i pazienti con infezione sono stati 73 nel gruppo inibitori del SGLT-2 e 87 in quello agonisti del recettore del GLP-1 (tasso di incidenza 2,15 e 2,96 casi per 1.000 anni-persona, rispettivamente; P=0,040). I risultati sono stati confermati anche in caso di infezioni non gravi e non ci sono state variazioni con le analisi di sensibilità e dei sottogruppi.

In un editoriale correlato, Kristian Filion e Oriana Yu, del Lady Davis Institute al Jewish General Hospital in Canada, sottolineano le importanti implicazioni dello studio anche se ne evidenziano i limiti, in particolare il fatto che siano stati esclusi i pazienti ad alto rischio di UTI (soggetti con idronefrosi, reflusso vescico-ureterale, lesioni del midollo spinale o uso di catetere). «In definitiva, sebbene restino alcune incertezze, lo studio fornisce prove incoraggianti real-world di sicurezza degli inibitori del SGLT-2, consentendo ai pazienti di beneficiare del loro uso con maggiore fiducia nella sicurezza rispetto alle UTI gravi» concludono.

Ann Intern Med. 2019 Jul 30. doi: 10.7326/M18-3136.
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31357213

Ann Intern Med. 2019 Jul 30. doi: 10.7326/M19-1950.
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31357211 

Fonte Doctor33

Ago30
00

Bloccato Fattore di Rischio Genetico dell’Alzheimer: in Arrivo un Super Vaccino

By Redazionebis - Genetica,Immunologia,Laboratorio,Medicina,Neurologia,Neuropsicologia,News

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Una buona notizia ci viene da un team di studiosi del Centro per la ricerca di neurodegenerazione traslazionale e del Medical Center presso l’Università del Texas Sudoccidentale di Dallas. Gli scienziati hanno per la prima volta bloccato in laboratorio l’azione tossica di una proteina che favorisce l’accumulo delle placche di beta amiloide nelle cellule.

Potrebbe questo essere un traguardo rivoluzionario per la nascita di un vaccino o di altro tipo di farmaco per la prevenzione dei casi di Alzheimer dal 50 all’80%. I ricercatori, coordinati dal dottor Joachim Herz, del Dipartimento di genetica molecolare dell’ateneo americano, si sono concentrati sullo studio delle alipoproteine, un gruppo di proteine che si lega ai lipidi (come il colesterolo) e che è in grado di trasportarli nei vari distretti dell’organismo, tessuto cerebrale compreso.

Le alipoproteine si presentano in diverse varianti genetiche (ApoE2, ApoE3, ApoE4 etc etc); e a quanto pare le persone che esprimono l’ApoE4 hanno un rischio di sviluppare l’Alzheimer dieci volte maggiore rispetto a coloro che esprimono invece le altre forme principali. Per esprimere il concetto in modo più elementare, possiamo dire che ApoE4 genera dei veri e propri “ingorghi” nel traffico cellulare, da cui viene quindi favorito l’accumulo dei grovigli di proteina tau e placche di beta amiloide, intimamente connesse alla neurodegenerazione ed ai sintomi fisici e cognitivi della demenza più diagnosticata al mondo (si stima colpirà 115 milioni di persone entro il 2050).

Attraverso degli esperimenti sui topi, gli scienziati hanno scoperto che, abbassando il pH dei corpi vescicolari che si occupano del trasporto delle sostanze all’interno delle cellule (endosomi), gli ingorghi causati da ApoE4 possono essere prevenuti. In altre parole i ricercatori hanno tentato di ostacolare uno dei fattori genetici considerati più impattanti nello sviluppo del morbo di Alzheimer agendo geneticamente e farmacologicamente su una proteina chiamata NHE6, che è responsabile dell’acidità degli endosomi.

Effetto di tale scoperta è la possibile creazione di un farmaco o un vaccino da somministrare prima dei 40 anni, che potenzialmente dovrebbe poter prevenire il rischio di sviluppo Alzheimer. E il dottor Herz, entusiasta del lavoro del proprio team di ricerca, ha dichiarato: “Una semplice pillola potrebbe un giorno neutralizzare il rischio del morbo di Alzheimer a esordio tardivo, così come le statine facilmente disponibili sono in grado di ridurre il rischio di malattie cardiovascolari”. Sia sulla rivista scientifica eLife che sul sito dell’ateneo di Dallas è possibile trovare i dettagli riguardanti tale ricerca.

 Fonte Your Edu Action
Ago21
00

Hiv, infezione spesso senza diagnosi fino alla comparsa dei sintomi. Pochi fanno il test

By Redazionebis - Genetica,Immunologia,Laboratorio,Malattie Infettive,Medicina,News

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Meno del 40% dei cittadini statunitensi si è sottoposto, almeno una volta nella vita, al test per l’Hiv, secondo un rapporto del Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) pubblicato nel rapporto Morbidity and Mortality Weekly. Proprio i Cdc, fin dal 2006, avevano raccomandato uno screening universale per l’infezione da Hiv per le persone di età compresa tra 13 e 64 anni e almeno una revisione annuale per le persone ad alto rischio. La ragione di questo appello sta nel fatto che molti sieropositivi non sanno di esserlo e se ne accorgono solo quando compaiono i sintomi dell’immunodeficienza, mettendo così a rischio la propria salute senza approfittare dei trattamenti esistenti ed esponendo a maggiori probabilità di contagio i propri partner sessuali.

Non è chiaro quanti siano gli italiani che non si sono mai sottoposti a test, ma certamente esiste un’area sommersa che, come dice il presidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) Massimo Galli, si stima sia composta da15-20 mila persone, che in gran parte hanno contratto l’infezione da tempo ma non ne sono consapevoli.

Vengono invece rilevate le nuove diagnosi; «il loro numero è sostanzialmente stabile – riferisce Galli – con una piccola riduzione che non si sa quanto sia rappresentativa di un reale trend destinato a durare e spesso si riferiscono a situazioni pregresse; invece, non si ragiona quasi mai sulle nuove infezioni: sono difficili da determinare, ma una stima riferita al 2017 la ha valutate in circa 2.770, quasi sette al giorno, una cifra decisamente preoccupante».

L’esistenza del sommerso è testimoniata dalle modalità con cui i sieropositivi giungono alla diagnosi. «Si è visto che solo il 26% di coloro che hanno ricevuto una nuova diagnosi di positività all’Hiv nel 2018 si era sottoposto al test perché sapeva di aver avuto comportamenti a rischio; in tutti gli altri casi – spiega Galli – la percezione del rischio non c’era; talvolta l’infezione è stata diagnosticata durante controlli di routine, magari in occasione dei test a cui le donne si erano sottoposte a causa di una gravidanza, oppure in condizioni particolari come le carceri. Ma la percentuale più elevata, circa il 32%, è relativa a cittadini che si erano rivolti al medico a causa di una sieropositività di vecchia data che aveva debilitato il sistema immunitario fino a diventare sintomatica. Uno scenario di questo tipo dovrebbe imporre una maggiore attenzione al test e ancor di più alla prevenzione».

Fonte Doctor 33

Lug19
00

I “superbatteri” potrebbero essere sconfitti con combinazioni di antibiotici

By Redazionebis - Genetica,Immunologia,Laboratorio,Malattie Infettive,Medicina,News

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Secondo uno studio pubblicato su Nature Microbiology, una forma di resistenza agli antibiotici nota come “eteroresistenza” è più diffusa di quanto si pensasse in precedenza, e il monitoraggio di tale situazione potrebbe guidare la scelta di combinazioni di antibiotici utili per sconfiggere batteri considerati invincibili. «La presenza dell’eteroresistenza fa sì che i test standard utilizzati nei laboratori ospedalieri non sempre riescano a rilevare la vera resistenza a un dato antibiotico, perché solo una piccola sotto-popolazione delle cellule batteriche è in realtà resistente al farmaco. Ma quella sotto-popolazione emerge rapidamente e prospera quando quel determinato antibiotico viene assunto durante l’infezione batterica» spiega David Weiss, dell’Emory Antibiotic Resistance Center di Atlanta, negli Stati Uniti, autore senior dello studio.

«L’eteroresistenza a volte può quindi far classificare in modo errato alcuni batteri come suscettibili, e quindi portare al fallimento del trattamento, e altre volte farà pensare di essere davanti a un ceppo resistente in toto anche se questo non è vero» prosegue Weiss. I ricercatori hanno esaminato 104 isolati batterici presi da un programma di sorveglianza supportato dai Centers for Disease Control and Prevention (CDC) in Georgia contenenti Enterobacteriaceae resistenti ai carbapenemi, e hanno visto che l’85% di questi batteri erano eteroresistenti ad almeno due antibiotici. Gli esperti hanno poi scoperto che combinando questi due antibiotici era più facile uccidere i batteri, perché si agiva indipendentemente su due sotto-popolazioni. Gli autori sottolineano che questo studio riguarda solo gli enterobatteri resistenti ai carbapenemi, che il CDC ha designato come una grande minaccia, ma che l’eteroresistenza è stata osservata anche in altri tipi di batteri. Non è per ora possibile dire in anticipo quale combinazione di antibiotici funzionerà o meno, e devono ancora essere condotti studi su pazienti in ospedale prima di una conferma dell’efficacia di questo tipo di intervento. «Questa idea della terapia combinata, per ora, potrebbe essere un modo per utilizzare ancora antibiotici a cui i batteri hanno sviluppato resistenza. Insomma, forse non è il caso di buttare quei farmaci nella spazzatura, potrebbero ancora avere qualche utilità. Devono solo essere usati in combinazione con altri per essere efficaci» conclude Weiss.

Nat Microbiol. 2019. doi: 10.1038/s41564-019-0480-z
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/31209306 

Fonte Doctor33: https://bit.ly/2XAuWbZ

Giu21
00

Aids, arriva in Italia trattamento “3 in 1”. Ora terapia più semplice

By Redazionebis - Genetica,Immunologia,Laboratorio,Malattie Infettive,Medicina,Microbiologia,News

Hiv virus in sezione rendering

La terapia per l’Hiv diventa più semplice. Gilead Sciences annuncia l’arrivo in Italia del regime a singola compressa a base di bictegravir 50 mg/emtricitabina 200 mg/tenofovir alafenamide 25 mg, con somministrazione una volta al giorno, per il trattamento dell’infezione da Hiv-1. La terapia combina la potenza del nuovo inibitore dell’integrasi con il consolidato profilo di sicurezza ed efficacia di due inibitori nucleosidici della trascrittasi inversa.

In Europa, la terapia “3 in 1” è indicata come regime completo per il trattamento dell’infezione da Hiv-1 negli adulti senza evidenza – presente o passata – di resistenza virale alla classe delle integrasi, a emtricitabina o a tenofovir. Nessun aggiustamento del dosaggio è necessario nei pazienti con clearance stimata della creatinina maggiore di o uguale a 30 ml al minuto, si legge in una nota. Il farmaco è stato approvato dalla Food and Drug Administration Usa il 7 febbraio 2018 e la Commissione europea ne ha concesso l’Autorizzazione all’immissione in commercio a fine giugno 2018.

Fonte Doctor33: https://bit.ly/2ZxzQaT

Giu6
00

Malattie autoimmuni, due nuovi biosimilari ampliano la scelta di trattamento

By Redazionebis - Genetica,Immunologia,Laboratorio,Medicina,News,Prevenzione

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Sono disponibili anche in Italia due nuovi farmaci biosimilari: Hyrimoz, approvato per tutte le indicazioni del prodotto adalimumab di riferimento tra cui artrite reumatoide, psoriasi a placche, morbo di Crohn e colite ulcerosa e Zessly, autorizzato per tutte le indicazioni del farmaco infliximab di riferimento tra le quali artrite reumatoide, morbo di Crohn in forma pediatrica e non, colite ulcerosa in adulti e bambini, spondilite anchilosante, artrite psoriasica e psoriasi a placche. Ad annunciarlo è una nota di Sandoz in occasione dell’incontro “Value for the Future” organizzata da Sandoz a Roma, per discutere insieme a clinici, istituzioni e pazienti sulle opportunità offerte dai biosimilari.

«La nuova disponibilità di un farmaco biosimilare rappresenta sempre una buona notizia perché costano almeno il 30 per cento in meno, rispetto al farmaco originatore, e permettono di liberare risorse da reinvestire nello stesso settore medico di appartenenza, con benefici di maggior accesso alle cure e un miglioramento dei percorsi di gestione dei pazienti – afferma Alessandro Armuzzi, Responsabile IBD Unit della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS di Roma. «Il singolo passaggio dall’originatore al biosimilare, inoltre, è sicuro, efficace in maniera sovrapponibile a quello dei biologici originatori, rappresentando una risorsa preziosa per lo specialista».

«I farmaci biosimilari rappresentano un’opportunità per il clinico e consentono un risparmio di risorse, soprattutto se si tiene conto che in Italia il numero di pazienti trattati con farmaci biotecnologici è tra i più bassi d’Europa – dichiara Luigi Sinigaglia, Direttore della Struttura complessa di Reumatologia del Gaetano Pini-CTO di Milano. «Se si fa riferimento alle limitazioni di budget delle singole Regioni, la nostra esperienza con i biosimilari è in generale positiva, soprattutto nei pazienti cosiddetti naïve, che non sono mai stati trattati in precedenza con farmaci biologici, e non c’è ragione per non utilizzare il biosimilare nel paziente che ha indicazione per quel farmaco specifico».

Con l’introduzione dei due nuovi biosimilari, Sandoz amplia l’offerta di cura (7 biosimilari disponibili in Italia ed in Europa) a disposizione dei clinici, dando loro la possibilità di scegliere la migliore alternativa terapeutica per i pazienti eleggibili al trattamento con biologico. Un recente studio condotto da “The European House Ambrosetti” per il Gruppo Novartis in Italia, sottolinea la nota, “ha evidenziato come Sandoz contribuisca a creare valore anche attraverso i risparmi generati dall’utilizzo di farmaci equivalenti e biosimilari”. «Nel 2017 il valore di risparmio generato da Sandoz a beneficio del Sistema Sanitario Nazionale è stato pari a 224,5 milioni di euro grazie ai nostri medicinali equivalenti e biosimilari – commenta Vivek Devaraj – Amministratore Delegato di Sandoz SpA – Il nostro impegno nel trovare nuovi modi per ampliare l’accesso alla salute è costante. Lavoriamo alla continua ricerca di soluzioni terapeutiche che vadano a rispondere a bisogni ancora insoddisfatti di salute. La disponibilità dei nuovi biosimilari di infliximab e adalimumab esprime concretamente questa volontà. Inoltre, in quanto leader nel segmento dei biosimilari, sentiamo di avere una responsabilità importante nel favorire il dialogo e la collaborazione di medici e pazienti, a supporto di una più ampia conoscenza e consapevolezza su tali farmaci».

Sul fronte dei pazienti – spiega Salvatore Leone Direttore Generale dell’Associazione Amici onlus, è stata realizzata «un’indagine per capire cosa e come viene comunicato ai pazienti, quali sono i dubbi e le informazioni che servono su questo tipo di terapie, per offrire elementi utili di aggiornamento e formazione che possono rendersi necessari. Dai dati emersi si evince chela costruzione di un dialogo costante ed efficace tra medico e paziente per migliorare la conoscenza sui biosimilari è molto importante; il loro utilizzo significa prima di tutto la possibilità di liberare risorse per il Ssn che possono essere investite in terapie innovative».

Fonte Doctor33: https://bit.ly/2QGw5wR

Mar29
00

Antibioticoresistenza, in Italia primato negativo. Simit: manca cultura dell’uso corretto

By Redazionebis - Immunologia,Laboratorio,Malattie Infettive,Medicina,News

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Nell’Unione europea sono stati documentati 671.689 casi di infezioni antibiotico-resistenti, con 33.110 decessi, soprattutto nei bambini nei primi mesi di vita e negli anziani. I dati, riferiti al 2017, sono stati forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità e dal Centro europeo per il controllo delle malattie infettive e vengono rilanciati in occasione del VII Congresso internazionale Amit (Argomenti di Malattie Infettive e Tropicali), svoltosi a Milano nei giorni scorsi.

In questo contesto, emerge il primato negativo dell’Italia, dove si registra il maggior numero di morti da resistenza agli antibiotici, circa 10mila. «Una delle possibili spiegazioni – spiega Massimo Galli, presidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali (Simit) – è l’insufficiente cultura nell’utilizzo dell’antibiotici, a cui si dovrebbe ricorrere quando necessario e non come “coperta di Linus” in qualsiasi situazione. Un’altra ragione deriva da una non sufficiente organizzazione dell’utilizzo degli antibiotici nel setting ospedaliero, dove una scelta mirata e accurata, in mano possibilmente esperta, diventa un fattore fondamentale per evitare questo tipo di problematica. Infine, l’Italia è stata più di altri Paesi vittima dell’ampia disponibilità di antibiotici e del conseguente abbondante utilizzo; tipi di antibiotici la cui efficacia avrebbe dovuto essere preservata sono state completamente disponibili nell’intero sistema sanitario e questo non è accaduto allo stesso modo in altri Paesi.

È triste riconoscere che fenomeni restrittivi nell’utilizzo degli antibiotici possano aver avuto un effetto limitativo nell’emergenza delle resistenze. In altre parole, noi abbiamo curato molto e a volte con qualche utilizzo di troppo o non del tutto appropriato». Se questo è lo scenario dell’antibiotico resistenza dovuta al consumo umano, un’altra causa riconosciuta è quella dell’ampio utilizzo di questi farmaci negli allevamenti intensivi di animali. «È una questione parallela e importante – sostiene Galli – quel che esce, in termini di materiali reflui, dagli allevamenti è ricco di ceppi resistenti ad antibiotici che avrebbero potuto essere utili per l’uomo e ormai stanno diventando inefficaci. Non è una problematica limitata ai Paesi industrializzati, ma è estesa a livello globale e caratterizza anche Paesi emergenti e nuove economie; per fare un esempio, la quantità di antibiotici che vengono utilizzati negli animali in Cina è spaventosa».

A ricordare i moniti sull’uso corretto degli antibiotici è Andrea Mandelli, presidente Fofi, che in un’intervista radiofonica su RadioCapital ha sottolineato che «l’uso deve essere figlio della prescrizione del medico. Bisogna evitare di autodiagnosticarsi la necessità di assumerli semplicemente perché in casa ne è rimasta una confezione residua o perché quel sintomo sembra simile a quello per il quale il farmaco era stato prescritto. Dall’uso inconsapevole non può che derivare un danno di salute nonché la diffusione di agenti infettivi sempre più resistenti. Le stime ci dicono che nel 2050 le infezioni saranno la principale causa di morte».

Fonte Farmacista33: https://bit.ly/2UcY9My

Feb7
00

Antibiotici e alimenti “speciali”, Eurispes: dati allarmanti, gli italiani scelgono il fai-da-te

By Redazionebis - Alimentazione,Immunologia,Laboratorio,Malattie Infettive,Medicina,Microbiologia,News,Prevenzione

rapporto eurispes 2019 31

Boom di consumi di alimenti “speciali”, in particolare i gluten-free, ma non per colpa delle intolleranze, e un allarmante ricorso a farmaci antibiotici senza che ci sia la prescrizione del medico. Questi alcune tendenze che emergono dal 31° Rapporto Italia Eurispes che affronta temi molto vari e dedica alcune schede “fenomenologiche” a diversi altri temi di stretta attualità tra cui anche l’uso dei farmaci e l’alimentazione. L’indagine campionaria, spiega la nota stampa dell’Istituto, è stata realizzata su un campione stratificato in base alla distribuzione della popolazione per sesso, classe d’età ed area geografica risultante dai dati dell’ultimo Censimento Istat. Le risposte raccolte in merito all’uso di farmaci, secondo il rapporto, sono “allarmanti per quanto riguarda l’assunzione di antibiotici, farmaci che dovrebbero essere prescritti dal medico”: quasi 4 italiani su 10 ammettono di prendere antibiotici senza prescrizione medica “qualche volta” (33%) e “spesso” (4,8%). Anche in questo caso, sono più numerose le donne (“spesso” il 6,7% contro il 2,8% degli uomini, “qualche volta” il 34% contro il 32,1%).

Il “fai-da-te” investe anche il consumo di prodotti alimentari speciali, cioè pensato per i soggetti che soffrono di disturbi legati all’alimentazione clinicamente diagnosticati: Quasi un quinto del campione (19,3%) dichiara di acquistare alimenti privi di glutine; tuttavia, solo al 6,4% è stata diagnosticata una intolleranza, mentre il 12,9% li assume senza essere intollerante. Il 18,6% compra prodotti senza lievito: il 4,6% è stato effettivamente riconosciuto intollerante, a differenza del 14% che ammette di non esserlo. Un quarto degli intervistati (26%) acquista prodotti senza lattosio, ma solo l’8,5% lo fa per una diagnosi di intolleranza. Dunque, molti italiani assumono alimenti speciali pur non avendo ricevuto una diagnosi di intolleranza dal proprio medico. Tendenza che si riscontra più tra le donne che tra gli uomini: il 15,1% compra cibi senza glutine a fronte del 10,6% degli uomini; il 19,4% senza lattosio (contro il 15,6%), il 15,6% senza lievito (gli uomini nel 12,4%). È stato poi esplorato l’uso degli integratori alimentari: il 10,5% ne fa uso abitualmente, il 46,5% qualche volta, il 43% mai. La percentuale femminile è quasi doppia rispetto a quella maschile (13,4% contro il 7,6%).

Il 45,5% del campione acquista integratori solo su indicazione del medico, il 28,3% di propria iniziativa, il 26,1% alterna le due situazioni. Un’altra scheda è dedicata all’omeopatia che, in Italia, secondo l’ultima rilevazione dell’Eurispes (2017), è tra le medicine non convenzionali la più diffusa. Nel Rapporto emerge che quando si decide di non affidarsi alla medicina allopatica, ci si orienta prioritariamente all’omeopatia, nel 76,1% dei casi, in seguito, alla fitoterapia (58,7%), all’osteopatia (44,8%), all’agopuntura (29,6%) e, infine, alla chiropratica (20,4%). In particolare, un pediatra su tre usa anche l’omeopatia. (SZ).

Fonte Doctor33: https://bit.ly/2WPf99S

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